mercoledì 30 dicembre 2009

Lo Studio Elettrofisiologico


Tra gli esami cardiologici di routine, lo studio elettrofisiologico (abbreviato in SEF) non è certo tra i più frequenti. Consiste nella valutazione dell'intero impianto elettrico del cuore, eseguito mediante il posizionamento di sottili fili manovrabili (chiamati elettrocateteri), introdotti attraverso una o più piccole cannucce (chiamate introduttori) che vengono inserite nella vena dell'inguine, tramite puntura della stessa vena.
Questi elettrocateteri, avanzati lungo la vena fino al cuore, sono manovrabili dall'esterno, pertanto è possibile posizionarli (con l'aiuto dei raggi X) in punti strategici all'interno del cuore, al fine di registrare la corrente interna del cuore, cioè i potenziali elettrici endocavitari.
Essi sono infatti dotati di minuscoli elettrodi, grazie ai quali si registra l'attività elettrica cardiaca dopo collegamento ad un computer particolare, chiamato poligrafo. Oltre alla registrazione dei potenziali cardiaci, è possibile anche inviare al cuore determinati stimoli elettrici, al fine di capire qual è la suscettibilità a sviluppare aritmie potenzialmente maligne
Come si svolge?
il paziente rimane sveglio, in quanto non è necessaria anestesia generale (a seconda dello stato d'ansia si può somministrare un farmaco tranquillante, ma non è un'anestesia generale). Si pratica una anestesia locale all'inguine, quindi si punge la vena femorale per posizionare gli introduttori. L'intera fase, ad eccezione della puntura con ago piccolo iniziale per l'anestesia locale, non è dolorosa.
Attraverso gli introduttori si avanzano gli elettrocateteri fino al cuore, sotto controllo dei raggi X in continuo. In pochi minuti, posizionati i cateteri, comincia la procedura.
Vengono inviati al cuore (dalla punta di uno di tali cateteri) impulsi elettrici secondo criteri e protocolli stabiliti, per valutare come risponde il cuore.
Per semplificare, si inizia con un "treno" di 8 impulsi, l'ultimo dei quali viene sempre più anticipato rispetto agli altri: esempio, 8 impulsi distanti 600 millisecondi l'uno dall'altro, l'ultimo a 400 millisecondi. Si aspetta 2 secondi, quindi si riparte: 8 a 600 msec e l'ultimo a 380 msec; poi a 360 e così via.
Ad ogni impulso il cuore normale risponde con una contrazione; ad un certo punto l'ultimo battito sarà talmente anticipato da non far contrarre il cuore. In tal caso si dice che il cuore è refrattario, comportamento normale.
A tali "treni" di impulsi (non dolorosi, ovviamente) un cuore normale risponde in sostanza infischiandosene, cioè non sviluppando nessuna aritmia. Un cuore malato invece, immediatamente dopo la cessazione del treno di impulsi, può fare diversi scherzi, da qualche extrasistole, fino all'innesco e all'automantenimento di aritmie sostenute (cioè prolungate), decisamente minacciose per la vita, in certi casi.
Naturalmente, se si dovesse innescare l'aritmia più grave, cioè la fibrillazione ventricolare (rapidamente mortale), niente paura: è sempre pronto un defibrillatore esterno col quale si può immediatamente interrompere l'aritmia.
Quando è indicato?
Uno studio elettrofisiologico non è certo una procedura cardiologica abituale. Vi si ricorre solo dopo attenta valutazione, ed in genere si tratta sempre di casi in cui aritmie più o meno maligne siano già state documentate, all'ECG, all'Holter, o dopo episodi sincopali (cioè svenimenti, in termini più semplici)
La tipologia di paziente può però essere diversa. Vi può essere il paziente che ha già avuto un infarto, lo sportivo sano e giovane con un Holter pieno di extrasistoli di vario tipo, colui che ha accusato episodi di palpitazione per i quali gli esami cardiologici non invasivi (prima di tutto l'Holter) non hanno evidenziato nulla.
Il concetto-chiave è che se si decide di fare uno studio elettrofisiologico, ci si debbono attendere i potenziali risultati: se è negativo, tanto meglio. Se invece dovesse essere malauguratamente positivo (positivo per cosa? Naturalmente per la ricerca di aritmie maligne) si può tentare di
  1. ablare l'aritmia (cosa semplice a dirsi, molto meno semplice a farsi: mediante un catetere analogo a quelli dello studio elettrofisiologico, detto catetere ablatore, si crea una microscopica "lesione" all'interno del cuore, al fine di eliminare il punto da cui origina l'aritmia)
  2. impiantare un defibrillatore, cioè un dispositivo analogo ad un pacemaker, bensì molto più complesso, in grado di rilevare aritmie maligne e interromperle immediatamente con una scarica elettrica
Richiede ricovero?
Si, in generale il ricovero è di 3 giorni: primo giorno accertamenti, secondo giorno ci si sottopone allo studio, terzo giorno dimissione.
Possibili Complicanze
Talvolta, pur con le dovute attenzioni, è possibile creare una fistola arterovenosa, cioè un'anomala comunicazione in sede di puntura femorale (cioè all'inguine) tra l'arteria e la vena. Si può identificare con la ricerca del caratteristico soffio, per quando un ecoDoppler locale sia molto più preciso. In tal caso è necessario un intervento chirurgico per riparare la lesione (non sempre, ma spesso).
Altre complicanze ben più gravi, quali la perforazione del cuore, sono pur possibili per quanto, in mani esperte, estremamente rare.

lunedì 23 novembre 2009

La Ripolarizzazione Precoce

Supponiamo che abbiate apppena ritirato il vostro elettrocardiogramma (ECG), il cui referto recita "segni di ripolarizzazione precoce".
Qualcuno (il vostro medico, la vostra assicurazione, la vostra palestra) vi ha richiesto un ECG, che avete in mano; vorreste sapere qualcosa di più di quello che c'è scritto, ma il vostro medico non è in grado, nè è possibile consultare un cardiologo in breve tempo.
C'è quella dicitura... "segni di ripolarizzazione precoce". Che sarà mai? E' grave? C'è da preoccuparsi? Vediamo di che si tratta.
Si definisce "ripolarizzazione precoce" un particolare aspetto di una parte dell'ECG (non serve scendere in dettaglio, per chi medico non è) che riguarda la ripolarizzazione, cioè il ritorno delle correnti elettriche del cuore allo stato di riposo, un istante dopo che la contrazione è avvenuta.
Questo particolare aspetto dell'ECG, facilmente riconoscibile da qualsiasi cardiologo, fino a poco tempo addietro veniva considerato privo di particolare significato, praticamente una variante normale, relativamente frequente in soggetti giovani, talvolta praticanti attività sportiva con regolarità.
Nel corso degli ultimi anni sono però stati pubblicati alcuni studi, condotti da ricercatori di chiara fama e pubblicati sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine (http://www.nejm.org/), volti a dimostrare che la ripolarizzazione precoce tanto benigna, alla fine, non è.
Già un autorevole studio francese aveva gettato seri dubbi sulla benignità del quadro, mentre recentemente, un gruppo di ricercatori finlandesi ha confermato tale ipotesi.
Costoro hanno infatti hanno esaminato che fine avessero fatto circa 11000 soggetti, catalogati e studiati anche da un punto di vista cardiologico, per fini assicurativi, dal 1966 al 1972.
Analizzando l'ECG di questi 11000 soggetti, venne riscontrato che il 5.8% presentava i segni di una ripolarizzazione precoce, cioè circa 630 persone.
Dopo un'osservazione durata 30 anni, che destino aveva avuto tale popolazione? I decessi erano stati più della metà; di questa metà, il 32% era venuto a mancare per cause cardiache; fra tutti i decessi per cause cardiache, quasi la metà era morto improvvisamente.
La domanda, a questo punto, è sorta spontaneamente nei ricercatori: col senno del poi, quali caratteristiche dell'ECG potevano ragionevolmente predire la morte per cause cardiovascolari?
Gli altri "marcatori" elettrocardiografici di elevato rischio cardiovascolare erano il lungo intervallo QT e l'ipertrofia ventricolare sinistra, ma fra tutti, la ripolarizzazione precoce è quella che si è rivelata essere più attendibile.
Pertanto, nel corso degli ultimi anni, si è scoperto che questo particolare aspetto elettrocardiografico, appunto la ripolarizzazione precoce, quando riscontrata in un soggetto diciamo di mezz'età, non è poi tanto innocua, potendo rappresentare un indicatore di aumentato rischio di morte per cause aritmiche.
Abbiamo già accennato, nel corso degli articoli precedenti, che il cuore possiede un impianto elettrico tutto suo, in grado di generare ritmicamente la corrente che gli serve per una omogenea contrazione. I disturbi che possono affliggere tale impianto elettrico sono molteplici, alcuni dei quali sono già stati discussi (vedi articolo sulle extrasistoli). Le aritmie non sono però tutte benigne, esistono anche quelle preoccupanti, come la tachicardia ventricolare o la fibrillazione ventricolare, rapidamente mortale se non si interviene immediatamente con la defibrillazione.
Quindi, come appena detto, quando un cuore, apparentemente sano, mostra tali peculiari alterazioni di quel particolare momento del ciclo elettrico che è la ripolarizzazione, cioè una ripolarizzazione precoce, la probabilità che possa verificarsi un'aritmia maligna è decisamente aumentata.
Che fare
In tal caso, supponendo che siate capitati a leggere questo articolo in quanto allarmati da una diagnosi elettrocardiografica che non conoscete, e supponendo che effettivamente siate affetti da ripolarizzazione precoce, l'unica cosa da fare è quella di rivolgersi ad un cardiologo. In realtà meglio sarebbe un aritmologo, cioè un cardiologo particolarmente specializzato nello studio delle aritmie. Sarà poi lui a consigliarvi sul da farsi. Sulla base delle alterazioni riscontrate potrà decidere se non fare nulla o, al fine di valutare meglio quale sia la reale suscettibilità del vostro cuore a sviluppare aritmie potenzialmente pericolose, sottoporvi ad un particolare esame chiamato "studio elettrofisiologico", le cui modalità di esecuzione le vedremo in un prossimo articolo

lunedì 26 ottobre 2009

Colesterolo e malattie di cuore: parte seconda

Nell'articolo precedente avevamo affrontato i motivi che vedono il colesterolo LDL tra i maggiori responsabili delle malattie cardiovascolari, nonchè la necessità di riportarlo a valori normali, al fine di ridurre il rischio di contrarre tali malattie.
In linea teorica, qualsiasi metodo andrebbe bene purchè funzioni, ed è per tale motivo che il primo approccio consigliato è sempre quello dietetico, più semplice e meno costoso.
A volte, però, è anche il meno efficace, specie in chi parte da valori di colesterolo LDL alti, con nemmeno una dieta particolarmente ricca di grassi.
Pertanto, voleste fare prevenzione e decideste di seguire quello che la scienza dice, non resta che ricorrere ai farmaci. Si tratta di una famiglia, quella delle statine, cioè i farmaci ipolipemizzanti per eccellenza, sui quali l'industria farmaceutica ha puntato e punta tutt'ora in maniera considerevole.
Premesso che una casa farmaceutica non è un'organizzazione caritatevole nè di beneficienza nè dedita per vocazione al bene del prossimo, bensì un'azienda con le normali politiche tendenti al massimo profitto, premesso parimenti che immettere sul mercato farmaci inutili, o peggio dannosi, non gioverebbe a nessuno, men che meno alla casa farmaceutica stessa (che ha tutto l'interesse a fare le cose bene e a stare ben lontana da cause e risarcimenti), vediamo in sintesi cosa fanno le statine più comuni.
Di statine in commercio ce ne sono parecchie: dalla simvastatina (la più vecchia, meno potente, estratta in origine da sostanze previste dalla Natura; esiste il generico), alla rosuvastatina (la più moderna e potente, tutta di sintesi, di cui non esiste ancora il generico).
Una statina, qualunque essa sia, agisce sul fegato, impedendogli (in misura variabile) di produrre il colesterolo; per far questo blocca un enzima particolare che serve al fegato per fabbricare colesterolo a partire dai precursori.
Detto questo, addentrarci nei meccanismi molecolari e di farmacodinamica ci interessa ben poco. Quello che invece deve essere chiaro è che, a dispetto delle idiozie che si dicono e si scrivono su alcuni giornali o siti Internet, le statine sono tra gli strumenti che più hanno contribuito alla riduzione della mortalità per malattie cardiovascolari.
E ciò, badate bene, lo dicono i numeri (sottolineo: i numeri, non le opinioni), cioè le decine di migliaia di pazienti che, arruolati ormai a partire dai primi anni '80 in innumerevoli studi clinici, hanno rappresentato la testimonianza dei benefici dell'assunzione di tali farmaci.
Ovviamente ognuno è libero di esprimere il proprio parere e di seguire o non seguire quello che le riviste scientifiche dicono; è però inaccettabile che parte di tali critiche provengano da gente che di farmacologia e statistica ne capisce molto poco...
Chi sa leggere i numeri degli studi capisce bene che le statine non fanno miracoli. Non è che assumendole, ci si mette al sicuro da nuovi eventi cardiovascolari o da recidive, nel caso ne avessimo già avuto uno. E' però indubbio che, in un campione statistico, il numero totale di eventi cardiovascolari si riduce: chi prende le statine ha meno infarti, meno angine, meno ospedalizzazioni. Quanto meno? Beh, ovviamente dipende dalla statina, dalle caratteristiche dei pazienti arruolati nello studio e dal numero di anni di osservazione.
In ogni caso, per come la penso io, fosse anche una sola la vita salvata o la qualità di vita migliorata, il gioco varrebbe la candela.
Vediamo allora chi è candidato a tale terapia, cosa deve o non deve fare, quali rischi o effetti indesiderati può attendersi.
Per chi vanno bene le statine?
Per tutti coloro che, avendo scoperto il costo e l'incompleta efficacia dei metodi alternativi, preferiscono lasciare i soldi in farmacia piuttosto che in erboristeria.
Può sembrare una battuta, ma è così. Si vogliono provare i metodi "non farmacologici" per ridurre il colesterolo? Ottimo inizio, personalmente non dimentico mai di consigliarlo ai miei pazienti (solo in prevenzione primaria e in chi è a basso rischio) come scelta iniziale. Scordatevi però il detto "tentare non costa nulla". Costa, eccome! Tanto quanto le statine (che tra l'altro costano in prevenzione primaria, mentre in secondaria li paga il SSN).
Vi siete documentati sugli effetti della frutta secca? della soia? dei fitosteroli? Di flavonoidi, pectine etc?
OK. Bisogna procurarseli, prepararseli (non vorrete comprare tutto già pronto e inscatolato, vero?) e provare. Se sarete riusciti a riportare il colesterolo LDL a valori di sicurezza, molto bene. In caso contrario.... tentativo fallito.
E' bene precisare che questo tipo di approccio, però, deve essere totalmente rivisto in prevenzione secondaria, in quanto non c'è più spazio per scherzare. La prevenzione secondaria (in questo caso della cardiopatia ischemica), cioè quella che riguarda chi ha già avuto un evento documentato (cioè infarto, angina, lesioni angiografiche documentate) deve essere rigorosa e basata su un approccio scientifico incontrovertibile; il perchè è intuitivo: bisogna evitare in tutti i modi una recidiva, in quanto potrebbe essere fatale.
In costoro, secondo le ultime vedute, il livello di colesterolo LDL andrebbe mantenuto a non più di 70 mg/dl. In tal modo, pur non essendo le statine tra i farmaci che fanno miracoli (è più che ovvio che il numero di eventi cardiovascolari non viene azzerato) ci si potrà assicurare una significativa riduzione di complicanze future.
Rischi o effetti indesiderati
Pur essendo le statine farmaci sicuri e assunti da milioni di persone nel mondo, bisogna sempre mantenere l'allerta. Quando creano danni, questi possono essere al fegato o, evento più grave, ai muscoli. Nella maggior parte dei casi i danni sono estremamente limitati, con lievi sofferenze del fegato, documentate da innalzamento delle transaminasi (le GOT e GPT). Ancora più raramente possono verificarsi danni ai muscoli per quanto, in tal caso, il danno è da considerarsi ben più grave, fino ad arrivare all'evento più temibile, la rabdomiolisi.
Alcune considerazioni conclusive
I benefici delle statine sono progressivamente emersi nel corso degli ultimi 30 anni, fino a culminare in alcuni recentissimi studi, che vale la pena citare. Questi studi hanno portato al concetto che "non è necessario avere il colesterolo alto per prendere le statine".
Uno studio, in particolare, avrebbe stravolto (se fosse applicato quotidianamente) le abitudini fin ora acquisite: studiando per 3 anni un campione di popolazione sana, poco fumatrice, poco ipertesa, mai eventi cardiovascolari, e soprattutto con colesterolo LDL non eccessivamente alto (in media l'LDL era inferiore a 130) la rosuvastatina si è rivelata capace di ridurre di circa la metà gli eventi cardiovascolari !
E' indubbiamente un risultato eclatante, talmente eclatante da comportare comprensibili problemi etici, nonchè di spesa sanitaria.
Visti tali benefici, si è provato ad allargare gli orizzonti: ci si è chiesti se le statine potevano servire a prevenire cose che col cardiovascolare c'entrano solo fino a un certo punto. Cioè ictus e ischemia cerebrale. Si era scelta una statina, l'atorvastatina, somministrata ad alto dosaggio (80 mg). Dopo circa 3 anni di osservazione, anche l'atorvastatina si è rivelata in grado di ridurre in maniera significativa (fare molta attenzione al termine statistico "significativa") il numero di ictus ischemici.

domenica 18 ottobre 2009

Colesterolo e malattie di cuore: parte prima

Una delle preoccupazioni maggiori, andando dal medico o cercando di interpretare gli esami del sangue, è il colesterolo.
Se tutti ne parlano, pochi sono in grado di saper dire, in due parole, di che si tratta e se fa veramente male.
Il colesterolo è una sostanza fondamentale per il normale funzionamento del nostro organismo. Serve per molte cose (rivestimento dei nervi, base per la produzione di alcuni ormoni, e altro). Viene ricavato dall'alimentazione, ma viene anche prodotto dal fegato; quindi, la frase che spesso si sente dire: "... si vede che lo produco io..." è veritiera. Altrochè, guai se non fosse prodotto dal fegato.
I problemi possono nascere quando il colesterolo è in eccesso, o meglio: non tanto tutto il colesterolo, quanto una parte di esso, quello chiamato LDL (che sta per lipoproteina a bassa densità, non è altro che una lipoproteina che funge da vagoncino per il trasporto del colesterolo nel sangue).
In ogni istante di viaggi il colesterolo ne compie tanti: assorbito nell'intestino, trasportato al fegato, processato dal fegato stesso e quindi reimmesso nel sangue per finire nel deposito (il tessuto adiposo, cioè la "ciccia").
Quello legato alle LDL è anche chiamato semplicisticamente e giornalisticamente "cattivo", per il fatto che, specie se ossidato, filtra attraverso il rivestimento delle arterie, contribuendo a formare le lesioni tipiche dell'aterosclerosi, cioè le placche fibroadipose.
L'aterosclerosi cos'è? E' quella complicatissima malattia responsabile del progressivo restringimento di molte arterie, quindi minor passaggio di sangue e rischio di un qualcosa che, all'improvviso, si può formare su queste placche: il trombo.
Una trombosi acuta, infatti, bloccando del tutto il passaggio di sangue in quella data arteria, provocherà un infarto al cuore (miocardico) un ictus cerebrale, un infarto intestinale, renale, e così via.
Ripetuti piccoli infarti cerebrali multipli possono anche condurre alla demenza senile multinfartuale (da cui quell'orribile neologismo giovanile, tremendo nel suo mettere a nudo tutta la povertà lessicale di molti giovani: "sclerare... sto sclerando...." quando "sclerosi" in Medicina vuol dire ben altra cosa...)
Ma tant'è...
Dicevamo del colesterolo LDL.
Gli studi che hanno cercato di indagare quanto deleterio fosse sono numerosissimi. Anzitutto è falso dire che si tratta di un problema dei tempi moderni, in quanto sono state trovate tracce anche nelle mummie egizie.
Senza scendere nel dettaglio, in sintesi le conclusioni di tutti questi studi (e si tratta di una quantità di dati incontrovertibile e impressionante nei numeri), è che bisogna fare di tutto per avere il colesterolo LDL il più basso possibile.
Le ultime vedute parlano di un colesterolo LDL (attenzione a non scambiare quello LDL per quello totale) che deve essere inferiore a 100 mg/dl per garantirci molti anni di vita liberi da malattie cardiovascolari; valore che dovrebbe ridursi a 70 mg/dl in coloro che hanno già avuto un evento cardiovascolare (la cosiddetta prevenzione secondaria).
In realtà il termine "garantirci" è forse un po' inappropriato, possiamo parlare di probabilità molto bassa.
A questo punto molti si chiederanno come fare a raggiungere tale traguardo.
Qui il discorso si fa più articolato, ma comunque vige una regola di base: non avere preconcetti di alcun tipo. Nel senso che tale obiettivo potrà essere raggiungo con i mezzi più disparati, a tentare con tutto non c'è niente di male: soia e budini o yogurt vari a base di fitosteroli, esercizio fisico aerobico regolare, pellegrinaggi, intrugli, pozioni e via discorrendo... purchè si raggiungano quei valori sopra citati.
Battute a parte, questi rimedi possono talora essere sufficienti, purchè il colesterolo di partenza non sia eccessivamente elevato, altrimenti non è che garantiscano miracoli.
In tali casi, volendo seguire quanto ci dice oggi la scienza attraverso i canali ufficiali (cosa che ovviamente non è obbligatoria, ognuno decide della propria salute come vuole, purchè sia adeguatamente informato), non resta che assumere farmaci che abbassano il colesterolo.
Come fanno e quali sono lo vedremo nel prossimo post

domenica 27 settembre 2009

Il Pacemaker

Chi segue queste pagine avrà già letto che il cuore, per potersi contrarre incessantemente nell'arco di una vita, possiede un impianto elettrico interno autonomo. E' un impianto elettrico capace tanto di crearsi la corrente, nonchè distribuirla uniformemente a tutto il cuore, in modo che il cuore stesso possa fare il proprio lavoro di contrazione e rilasciamento (sistole, diastole). Senza corrente un muscolo non si muove; anzi, non muovendosi si atrofizza: avete presente come sono ridotti gli arti inferiori di chi non li può usare perchè paralizzato (si dice "para-paresi o tetra-paresi")? L'impianto elettrico del cuore può, per fatti degenerativi o ischemici o altre cause, presentare malfunzionamenti o, in certi casi, dei veri e propri blocchi al passaggio della corrente: lo dovremmo già sapere, basta rileggersi quanto scritto a proposito dei blocchi di branca (che comunque rappresentano solo alcuni tra i blocchi di conduzione, peraltro nemmeno tanto gravi, in genere). Quando uno di questi blocchi di conduzione elettrica dovesse essere tale da impedire una regolare contrazione del cuore (ad esempio quando è responsabile delle pause, veri e propri arresti del cuore), allora bisognerà impiantare uno stimolatore, detto anche pacemaker, cioè segna passo, crea passo (impariamo l'inglese che ce n'è sempre bisogno: non confondiamo pace-maker con "peace-maker" che è ben altra cosa). A proposito di pause, ne basta una di 3 secondi per avere, in certi soggetti, una sincope da insufficiente irrorazione cerebrale, quindi pensate a quanto estremamente delicato è il cervello !!! Posta l'indicazione all'impianto, bisogna procedere. IMPIANTO DI UN PACEMAKER In sala operatoria, dopo anestesia locale della regione sub-clavicolare (già che ci siamo, anche il latino non guasta: sub sta per sotto, e clavicola è l'osso tra il collo e la spalla, detto cosi da "clavicula" cioè piccolo chiavistello, chissà perché....) si procede con la puntura della succlavia. Cos'è la succlavia? Il nome deriva da sub-clavia cioè sotto clavicola. E' una grossa vena, ma molto grossa, una specie di autostrada, che ovviamente non si vede come quelle piccole e superficiali del braccio, ma raccoglie un fiume di sangue dal braccio e lo riporta al cuore, in atrio destro per la precisione. Sta sotto l'osso, la clavicola per l'appunto, e non è sempre facile beccarla a primo colpo, ma in genere ci si riesce senza creare guai (e di guai se ne potrebbero creare, eccome! Se anzichè pungere la vena si dovesse accidentalmente pungere l'arteria o l'apice polmonare... beh, nulla di irreparabile, ma bisogna gestire tali complicanze e la degenza potrebbe allungarsi non poco...) Una volta punta questa grossa vena, si introduce attraverso essa (mediante una tecnica particolare che non spiegherò in dettaglio) l'elettrocatetere. E già! Come fa il pacemaker a dare il regolare impulso elettrico al cuore? Non certo per magia, bensì mediante un filo, un elettrocatetere appunto, sottile come uno spaghetto e morbidissimo, quasi come fosse gelatina, ma con all'interno un prezioso filo metallico. Introdotto dalla succlavia l'elettrocatetere viene posizionato abilmente (e sottolineo "abilmente", perchè talora non è semplice) in apice ventricolare destro. Qui, grazie a dei minuscoli ganci sulla punta, tale elettrocatetere si attacca alla superficie interna del ventricolo destro, non distaccandosene più (in genere è così, però a volte può sganciarsi). Una volta posizionato correttamente l'elettrocatetere, si procede alla creazione di una piccola tasca, non più di un centimetro al di sotto della cute e sempre sotto-clavicolare, destinata a contenere il pacemaker (che oggi è veramente minuscolo). Quindi si avvita al pacemaker l'altra estremità dell'elettrocatetere. Si inserisce il dispositivo nella tasca appena creata, si sutura il sottocute e la cute, e il gioco è fatto.
E' questo il caso di un pacemaker monocamerale, cioè fatto per una sola camera cardiaca (il ventricolo). Può anche essere bicamerale (atrio e ventricolo), avendo pertanto due elettrocateteri e algoritmi di funzionamento un po' più complessi.
COME FUNZIONA?
Un pacemaker è una specie di gioiellino tecnologico, dalla componentistica elettronica di solito estremamente affidabile, con una batteria di lunga durata (dai 6-7 ai 10 anni, circa), collegato (ormai lo sappiamo) ad un elettrocatetere.
Il pacemaker fa sostanzialmente due cose: sente quello che fa il cuore in ogni istante, e decide cosa fare di conseguenza.
Supponiamo che il cuore stia funzionando regolarmente da solo, battendo in tutta autonomia. Il pacemaker, attraverso l'elettrocatetere, riceve il segnale dell'attività elettrica cardiaca spontanea, battito dopo battito, giorno e notte (si parla di millesimi di volt), quindi sta zitto, in gergo si dice "inibito", non emette quindi alcuno stimolo.
Al contrario, nel momento in cui il cuore dovesse fermarsi, anche solo mancando un battito, tale assenza di attività elettrica viene percepita (si dice sentita, "sensed" in inglese) dal dispositivo, il quale emetterà prontamente un impulso elettrico la cui corrente, fuoriuscita dalla punta dell'elettrocatetere, è sufficiente a stimolare il cuore. Se il cuore non volesse proprio saperne allora il pacemaker lo stimolerà giorno e notte, secondo parametri e modalità che il cardiologo avrà programmato.
E' bene chiarire un punto chiave: il pacemaker, per quanto estremamente sofisticato, è solo un emettitore di un impulso elettrico, nient'altro.
Se il cuore è sano, tutto OK, ma se il cuore è malato di per sè, con una capacità di contrarsi molto scarsa (cosa che si ripercuote su tutto l'organismo, cioè quella condizione chiamata scompenso cardiaco) il pacemaker non potrà fare proprio nulla per alleviare le sofferenze del paziente (quindi è bene non attendersi dall'impianto di un pacemaker risultati che la macchina non potrà mai dare).
In nessun modo il pz si accorge del battito stimolato artificialmente, nè sono richieste particolari modifiche delle proprie abitudini di vita, si può continuare a fare quasi tutto quello che si faceva prima.
Esistono alcune precauzioni, ampiamente spiegate ai pazienti prima di procedere all'impianto.
Nella stragrande maggioranza dei casi l'elettronica, come detto, è affidabilissima, e i controlli annuali (che durano pochi minuti) filano via lisci.
Nel caso invece qualcosa non dovesse andare per il verso giusto... vediamo....
COMPLICANZE
Come ogni cosa che riguarda la Medicina, le complicanze correlate all'impianto e al funzionamento di un pacemaker esistono e sono entro certi limiti inevitabili, nel senso che possono accadere anche quando le cose sono fatte a regola d'arte.
Senza pretesa alcuna di elencarle dettagliatamente ed esaustivamente, vediamo cosa può andare storto all'atto dell'impianto.
Iniziamo subito a dire che, al giorno d'oggi, la parte elettronica del dispositivo non presenta praticamente mai dei malfunzionamenti; i problemi possono invece essere di altro tipo, di solito legati alla procedura chirurgica in sè.
Infatti, per quanto l'impianto sia una procedura chirurgica lieve e rapida (un'oretta nei casi più lunghi, sempre a paziente sveglio), è pur sempre chirurgica. Le infezioni, pertanto, sono sempre in agguato, specie in chi è per natura predisposto, come i diabetici.
L'infezione di tutto il sistema comporta un bel disagio per il paziente, con necessità di espianto di tutto il dispositivo infetto (e generalmente reimpianto dall'altro lato), con una cicatrice in sede di vecchio impianto.
C'è poi la possibilità di gravi complicanze legate alla puntura della succlavia (emotorace da puntura accidentale dell'arteria) o pneumotorace da perforazione dell'apice polmonare, entrambe risolvibili ma con notevoli disagi, talora cicatrici, tempi e convalescenze lunghi.
Quindi possono verificarsi complicanze del tutto imprevedibili, come l'aumento della soglia di stimolazione o la frattura dell'elettrocatetere.
La prima è una sorta di reazione tissutale dell'endocardio (il rivestimento più interno del cuore, dove si appoggia la punta del catetere) che rende molto difficoltoso il passaggio della corrente in quel punto, per cui è necessario aumentare sempre più la corrente erogata ad ogni battito, causando la scarica precoce di tutto il sistema; la seconda è la vera e propria rottura dell'elettrocatetere, causata talvolta dall'usura meccanica di questo "filo", dovuta ai movimento del braccio; talaltra causata dallo schiacciamento tra prima costa e clavicola con i movimenti del braccio.
E' intuitivo che se l'elettrocatetere dovesse spezzarsi si avrà il completo blocco di tutto il sistema (l'apparecchio non sente il cuore, quindi continuerà ad erogare impulsi, che però non raggiungeranno mai il cuore). 
Naturalmente, un conto è gestire una qualsiasi complicanza in un paziente che NON è pacemaker-dipendente; altra cosa è gestire un malfunzionamento di un pacemaker impiantato in un paziente che invece è pacemaker-dipendente, la cui vita dipende dalla minuscola fonte di energia e dai circuiti elettronici del dispositivo.
Concluderei con una considerazione: le migliori aziende del mondo, in tale campo, nemmeno a dirlo, sono americane, e sono le più diffuse a livello mondiale.
Esistono poi ditte tedesche, francesi, italiane; per adesso non ho notizia di pazienti italiani con pacemaker cinesi.
Quello della marca può sembrare un dettaglio, è vero, ma tutt'altro che trascurabile.
Supponiamo foste dei vacanzieri giramondo: avere impiantato un pacemaker italiano ed essere finiti in pronto soccorso, che so, in Thailandia o negli Stati Uniti... potrebbe fare la differenza! 
Eh si! Infatti, poichè ogni pacemaker si controlla mediante un programmatore (in pratica un computer attraverso cui il pacemaker dialoga), sarà necessario obbligatoriamente il programmatore di QUELLA marca, e nessun altro.
Detto questo, foste portatori di pacemaker e doveste partire per un soggiorno all'estero, conviene informarsi (magari chiamando la ditta produttrice) sul grado di diffusione della marca del vostro apparecchio in quel dato paese estero.... non si sa mai!

domenica 30 agosto 2009

I Danni al Cuore della Chemioterapia

INTRODUZIONE
La cura dei tumori si basa sulla somministrazione di particolari farmaci, i chemioterapici, in grado di ridurre o bloccare la crescita della massa tumorale in accrescimento.
Detto in questo modo può sembrare semplice; in realtà generalizzare, com'è altrettanto ovvio, è impossibile.
Esistono tantissimi tipi di tumori differenti che possono colpire ogni tessuto del nostro organismo, ognuno dei quali presenta vari livelli di aggressività, malignità, invasività, velocità di crescita, e così via.
Quei titoli che talvolta si leggono sui giornali, come "tizio ha sconfitto il tumore", oppure "caio ha vinto la propria battaglia...." non hanno alcun senso.
Esistono tumori dai quali, grazie alle moderne cure, si riesce a guarire senza grosse conseguenze; tumori dai quali si può definitivamente guarire con pesanti conseguenze; tumori per i quali ad oggi non esiste cura. E' pertanto chiaro come il destino dell'ammalato dipenda dal tipo di tumore e dalla risposta alla terapia.
Posta l'indicazione all'impiego di un farmaco chemioterapico, spetterà al medico valutare il bilancio tra i possibili benefici e i danni che quel farmaco potrà creare.
Qui ci occuperemo dei danni che i chemioterapici possono creare al cuore, tralasciando per brevità altri tipi di danni o conseguenze indesiderate.
QUALI SONO I FARMACI CHEMIOTERAPICI CARDIOTOSSICI ?
Per sommi capi, i chemioterapici che più spesso possono creare danni al cuore sono:
  • la famiglia delle antracicline (doxorubicina e daunorubicina), danni cardiaci dipendenti dalla dose
  • 5-fluorouracile
  • cisplatino, bleomicina
  • vincristina, vinblastina
  • ciclofosfamide
  • più raramente trastuzumab, interleuchina-2, interferone alfa

Il danno consiste in una riduzione della capacità di contrazione del cuore, che in certi casi può portare allo scompenso cardiaco. I sintomi, come prevedibile, possono variare; spesso però vi sarà fiato corto, marcata stanchezza, talvolta dolore toracico, aumento di peso (dovuto alla ritenzione di liquidi che il cuore non è più in grado di far circolare al meglio, mettiamola semplicisticamente in questi termini).

Per confermare l'esistenza del danno al cuore, cioè della cardiomiopatia, l'esame più semplice e completo è l'ecografia del cuore, già trattata in dettaglio in queste pagine (vedi). Il ventricolo sinistro si presenta ipocinetico (cioè che si contrae di meno rispetto al normale); all'interno di altre camere del cuore si possono notare pericolosi rallentamenti del flusso di sangue (l'eco-contrasto spontaneo, talora trombi dentro il cuore).

Va precisato che possono esistere altri tipi di danno indotto da tali farmaci: spasmo (contrazione) o trombosi delle coronarie e quindi infarto acuto; talvolta alterazione della permeabilità dei capillari e quindi edema polmonare. Possono poi verificarsi vari gradi di alterazioni della conduzione elettrica, da coinvolgimento del tessuto elettrico del cuore, nonchè bradicardia.

ANDAMENTO CLINICO E TERAPIE

Una terapia ben precisa, atta a scongiurare o limitare i danni cardiaci da chemioterapici, non esiste. Il quadro clinico di scompenso cardiaco si cura con i farmaci tipici dello scompenso, così come, se dovessero instaurarsi gravi problemi elettrici, si potrebbe ipotizzare l'impianto di un pacemaker. Molto spesso prevedere quale sarà l'andamento del problema è arduo, non esistendo parametri che possano farci capire come agirà il chemioterapico su un cuore normale; per le forme più lievi si può assistere ad una regressione, a patto che quel dato chemioterapico venga sostituito; purtroppo le forme più severe di cardiopatia raramente regrediscono. Per esse in certi casi l'unica opzione terapeutica sarebbe quella del trapianto di cuore, pur con le notevoli riserve di un trapianto eseguito in un paziente affetto da tumore

Per saperne di più (in inglese):

http://emedicine.medscape.com/article/152696-overview

sabato 18 luglio 2009

Il Blocco di Branca

Abbiamo appena ritirato il nostro elettrocardiogramma. Lo apriamo, guardiamo, cerchiamo conforto nel referto, che recita: "ritmo sinusale, blocco di branca..." che può essere destro o sinistro. 
Ritmo sinusale in pratica vuol dire ritmo normale. La parola "blocco di branca" invece ci preoccupa, suona male. Vediamo pertanto di che si tratta e, soprattutto, se c'è da preoccuparsi. 
Anzitutto una breve premessa: il cuore possiede un circuito elettrico tutto suo. Come ogni altro muscolo, per potersi contrarre, necessita di corrente elettrica. Questa corrente viene distribuita al cuore mediante un vero e proprio circuito elettrico, fatto non da fili ma da un tessuto particolare che si comporta come un filo elettrico, conducendo correnti molto basse (si parla di millesimi di Volt) ad alta velocità. E' noto che i due ventricoli, il destro e il sinistro, rappresentano la parte più importante del cuore: il ventricolo destro spinge tutto il sangue ad ossigenarsi nei polmoni, mentre il sinistro, una volta ricevuto tutto il sangue ossigenato, si occupa di distribuirlo a tutto l'organismo, spingendolo in aorta.
I due ventricoli, per potersi contrarre regolarmente, possiedono entrambi un fascio elettrico che garantisce una distribuzione omogenea della corrente. Questi due fili o fasci elettrici si chiamano "branca destra" e "branca sinistra" del fascio di His. Partono da un punto particolare del cuore (detto "nodo atrio-ventricolare") e terminano sfioccandosi a ventaglio nei due ventricoli stessi, per garantire una capillare diffusione della corrente elettrica. Per motivi vari può accadere che una di queste branche non conduca la corrente come dovrebbe, risultando pertanto "bloccata", dando origine, per l'appunto, ad un "blocco di branca". Quando una branca è bloccata non vuol dire che la corrente si sia bloccata del tutto. Se cosi fosse, il ventricolo corrispondente rimarrebbe fermo, come fosse morto.
Per fortuna non è cosi, in quanto la corrente, pur non passando più per il circuito elettrico preposto, si diffonderà molto più lentamente attraverso il ventricolo stesso, rendendo pertanto la contrazione un po' più disarmonica e leggermente meno efficace. Qual è il significato del blocco di branca? E' grave? Vediamo un po' più in dettaglio.  
Blocco di branca destra Comunemente abbvreviato in BBD (o BBDx, in inglese si chiama "right bundle branch block, o RBBB) è un'alterazione del circuito elettrico considerata in genere innocua. Può instaurarsi per fatti degenerativi, per ischemia del cuore, dopo interventi (anche ablazioni transcatetere); si può osservare tipicamente in persone giovani, talvolta soggetti sportivi, nei quali può essere considerato uno dei tanti segni di "vagotonia", cioè prevalenza della stimolazione di quella parte di sistema nervoso autonomo detta "vago". Non esistono sintomi che possano essere direttamente riconducibili ad un blocco di branca destra e di solito non è necessario approfondire il livello delle indagini. Non richiede alcuna terapia specifica. Di fatto, l'unica raccomandazione sta nella cautela a somministrare alcuni farmaci, specie antiaritmici.
Blocco di branca sinistra spesso abbreviato in BBS (in inglese è LBBB). In questo caso ad essere bloccata è, ovviamente, la branca sinistra del fascio di His. E' considerato più grave del controlaterale blocco di branca destra, non tanto perchè è coinvolto il ventricolo sinistro, quanto perchè la branca sinistra è normalmente divisa in due metà, l'emibranca anteriore sinistra e quella posteriore sinistra; quindi vuol dire che il blocco ha coinvolto una parte di cuore maggiore. E' ovvio che, essendo bloccata la branca sinistra e dovendo la corrente percorrere una strada più lunga per attivare il ventricolo sinistro, questo si contrae in ritardo rispetto al destro (si parla di millisecondi), mentre in un cuore normale i due ventricoli si contraggono simultaneamente.
Come per il destro, può verificarsi dopo ischemie, infarti, interventi sul cuore, può essere aggravato da effetti farmacologici e, in rari casi può essere anche congenito. Ancora una volta non vi sono sintomi specifici nè, a condizione che il cuore sia per il resto sano, saranno indicati ulteriori approfondimenti. E' però consigliabile, se lo si riscontra per la prima volta, eseguire quantomeno un ecocardiogramma e una registrazione Holter di 24 ore, che andranno ripetuti solo a giudizio del vostro cardiologo. 
All'ecocardiogramma si noterà chiaramente la contrazione anomala di questo ventricolo sinistro la cui branca è bloccata, pur non comportando (di solito) particolari conseguenze. 
Molto importante è la registrazione Holter, al fine di escludere ulteriori blocchi (magari notturni) del sistema di conduzione elettrico cardiaco, in quanto se presenti, potrebbe essere posta l'indicazione all'impianto di un pacemaker

sabato 7 marzo 2009

Il Cuore D'Atleta

Si tratta di un quadro molto particolare, dove i confini tra normalità e patologia si intrecciano, assumendo aspetti per certi versi paradossali.
Partiamo da una considerazione introduttiva: da un punto di vista strettamente cardiologico l'atleta fa storia a sè in quanto può presentare aspetti che, al di fuori di quel contesto, dovrebbero suggerire allarmi e conseguenti esami di approfondimento, invece talvolta non indicati nell'atleta stesso.
Il cuore d'atleta è l'esempio più classico.
Si tratta di una complessa serie di modifiche del cuore, non solo della componente muscolare ma anche di quella elettrica, finalizzate a garantire l'aumento di prestazioni richiesto, che talora può essere notevole.
L'aspetto principale, che racchiude in sè normalità e patologia, è l'ispessimento delle pareti del ventricolo sinistro. Come già detto tale quadro, se osservato in soggetti non atleti, configura una cardiopatia ipertrofica, malattia che può avere diversi livelli di gravità.
A tal proposito, una delle caratteristiche principali che distinguono la malattia dall'ipertrofia dell'atleta è l'entità dello spessore della parete posteriore del ventricolo sinistro, quasi mai superiore a 12 mm nell'atleta.
L'ipertrofia ventricolare sinistra non è l'unico aspetto peculiare del cuore d'atleta (esistono diverse tipologie di ipertrofia, a seconda del tipo di attività sportiva praticata): altrettanto tipica è la prevalenza del cosidetto "tono vagale", la cui conseguenza immediata è la bradicardia (frequenza a riposo inferiore a 60 b/min).
L'ipertono vagale, oltre alla bradicardia, provoca una spiccata tendenza alle aritmie ipocinetiche, cioè transitori arresti, pause, blocchi di conduzione, specie notturni, quando la frequenza può ulteriormente scendere a valori di allarme (al di sotto di 30-35 b/min).
E' possibile avvertire dei sintomi?
Argomento complesso. I sintomi, quando sono presenti, sono in genere aspecifici e più o meno correlati a quanto appena esposto. E' possibile pertanto accusare fugaci mancamenti (lipotimie o prelipotimie) dovuti tanto a ipotensione ortostatica nel passaggio brusco dalla posizione sdraiata a quella in piedi, quanto alla presenza di transitori arresti sinusali o blocchi di conduzione elettrica cardiaca a vari livelli, che però quasi mai sono gravi al punto da richiedere l'impianto di un pacemaker.
Esiste inoltre la possibilità che dolori al torace del tutto aspecifici, insorti per cause banali (raffreddamenti o "perfrigerazioni", malattie virali) possano lasciare il dubbio di ischemia cardiaca, viste le alterazioni elettrocardiografiche spesso presenti, dovute all'ipertrofia ma non del tutto distinguibili dall'ischemia miocardica.
In merito alla terapia, essa va valutata caso per caso. E' possibile però dare un'indicazione di carattere generale, valida nel caso in cui eventuali disturbi siano direttamente correlabili alla bradicardia marcata o all'ipertrofia ventricolare sinistra: in questi casi, dopo attenta valutazione cardiologica (supportata da esami strumentali) e medico-sportiva, si può ridurre (o sospendere per un periodo di tempo) il grado di allenamento, osservando quindi la risoluzione totale o parziale del problema

mercoledì 18 febbraio 2009

L'ecocardiogramma o Ecografia del cuore

L'ecografia del cuore si chiama ecocardiogramma, o in maniera più completa ecocardio color Doppler. Quanto le metodiche ecografiche siano utili lo sappiamo tutti, è ben fissa nell'immaginario collettivo una futura madre che si sottopone a ecografia del proprio grembo, visualizzando molti dettagli del nascituro. Allo stesso modo, gli ultrasuoni possono essere applicati al cuore, ricavandone informazioni essenziali. L'esame, del tutto innocuo, dura dai 15 ai 20 minuti, e consiste nel valutare immagini del cuore ottenute applicando sul torace una sonda, con interposto un po' di gel. L'operatore registra le immagini, generate da ultrasuoni, calcolando successivamente alcuni parametri in breve tempo, grazie agli algoritmi incorporati nella macchina stessa. Il principale parametro da valutare è la funzione contrattile. E' una stima delle capacità di contrazione dei due ventricoli, specie il sinistro, a cui è affidato il compito più gravoso. Per eseguire tale valutazione il cardiologo ricalca il contorno interno del ventricolo sinistro sullo schermo, prima in diastole quindi in sistole; il calcolatore incorporato nella macchina fornisce subito il valore percentuale complessivo di tale funzione contrattile, detto frazione di eiezione, che normalmente varia dal 55 al 65%. E' possibile che in certi casi questo valore sia più alto (cosa che non depone per un "superfunzionamento" del cuore, ma a destare la massima attenzione è la riduzione della frazione di eiezione, dato spesso presente nel post infarto o nello scompenso cardiaco. Se quanto appena detto vale per la funzione contrattile globale, particolarmente importate è la valutazione della funzione contrattile "segmentaria", cioè quanto e come si contrae ogni singolo "pezzettino" di ventricolo sinistro, in quanto le ischemie o gli infarti colpiscono caratteristicamente "a zona". Successivamente, grazie alla funzione Doppler, si valuta il funzionamento di ognuna delle quattro valvole cardiache: mitrale, aortica, polmonare e tricuspide. Per ognuna, a seconda del contesto clinico, si può valutare il grado di stenosi (cioè restringimento) o l'insufficienza, cioè quanto sangue quella data valvola lascia scappare, alterando il normale funzionamento cardiaco. Molto semplice è l'osservazione di un versamento pericardico, cioè la presenza di liquido tra il cuore e il pericardio (membrana sierosa che lo riveste), reperto abbastanza frequente, di cui si possono osservare le modifiche nel tempo. L'ecocardiogramma si rivela particolarmente utile nel campo delle cardiopatie congenite: tanto per seguire nel tempo i bambini operati, anche quando diventano adulti, quanto per identificare il più precocemente possibile l'esistenza di una cardiopatia congenita, cioè prima ancora che il bambino nasca (ecocardiografia fetale, esame molto specialistico che non tutti i cardiologi ecografisti sono in grado di eseguire)

sabato 7 febbraio 2009

La Stenosi Aortica

E' una diffusa malattia della valvola aortica, una delle quattro valvole del cuore.
La funzione normale di questa valvola, che si apre quando il ventricolo sinistro si contrae e spinge il sangue all'interno dell'arteria più grossa che si chiama aorta, è quella di impedire che il sangue, una volta spinto in aorta, refluisca indietro. Per far ciò si richiude istantaneamente dopo lo svuotamento del ventricolo sinistro.
La stenosi della valvola consiste in un restringimento di tale valvola, il cui diametro diventa tanto più ridotto quanto più grave è il grado di stenosi e quindi la gravità della malattia.
La prima cosa che ne consegue, è intuitivo, è che il ventricolo sinistro deve sviluppare molta più forza per spingere la quota di sangue, ad ogni battito, in aorta; un po' come soffiare all'interno di un ristretto buco.
Ciò causa un importante fenomeno che si chiama "gradiente": cioè una differenza di pressione tra l'interno del ventricolo sinistro e l'aorta, pressochè inesistente in condizioni normali.
Pertanto, se nel normale misuro una pressione arteriosa massima per esempio di 140 mmHg (basta misurarla col semplice manicotto intorno al braccio) all'arteria del braccio, uguale sarà quella che misureremmo all'interno del ventricolo sinistro.
Se invece ipotizzassimo una stenosi aortica che condiziona un gradiente... supponiamo di 30 mmHg, misureremmo sempre 140 al braccio, ma all'interno del ventricolo sinistro la pressione sarebbe di 170 mmHg (la realtà è un po' diversa, c'è un gradiente massimo e uno medio, ma concettualmente va bene così).
Il ventricolo sinistro a lungo andare ne soffre, si ispessisce (si chiama "ipertrofia") e può accusare gravi conseguenze, strettamente correlate ai sintomi
Chi colpisce?
Di stenosi aortiche ne esistono di diversi tipi, non è in questa sede il caso di approfondire. Quella di più frequente riscontro è di tipo degenerativo senile; è legata all'invecchiamento e al deposito di calcio sulla valvola, che pertanto diventa molto più rigida e meno "apribile" del normale.
L'anziano è pertanto il tipico soggetto con stenosi aortica, per quanto non sia la regola; non tutti i soggetti anziani manifestano la malattia.
Il sospetto, spesso concreto, nasce dalla semplice ascoltazione del cuore: un soffio sul focolaio aortico si percepisce con chiarezza, talvolta a coprire l'intera sistole (chiamato pertanto olosistolico), tipico di una stenosi aortica.
Attenzione: poichè i dati in Medicina vanno saputi analizzare e interpretare, non tutti i soffi aortici possono essere dovuti a una stenosi, non bisogna pertanto confondere la stenosi con la sclerosi aortica (aortosclerosi), anch'essa tipica dell'anziano ma innocua.
L'esame più semplice e utile per scoprirla è però l'ecografia del cuore (ecocardio), grazie al quale è possibile quantificare la gravità della malattia. Molto spesso il paziente si rivolge al cardiologo per capire e interpretare quanto trovato all'ecografia cardiaca, eseguita occasionalmente per controllo, o in occasione di qualche disturbo, che vedremo.
Sintomi
Non è detto che ci siano, può decorrere senza sintomi per molti anni. Quando ci sono, possono comprendere:
  • sincope sotto sforzo
  • angina pectoris (o di petto)
  • dispnea (o "fiato corto")
  • aritmie ventricolari maligne
Nei casi più gravi andrebbe sempre tenuta in considerazione la possibilità della morte improvvisa come conseguenza più grave della malattia, nonchè infarti miocardici, favoriti dal ridotto apporto di sangue attraverso le coronarie (magari già stenotiche e aterosclerotiche).
Cosa fare?
Generalizzare è impossibile. Esistono diversi livelli di gravità, è pertanto indispensabile la valutazione di un cardiologo.
Le informazioni da tenere presenti sono le seguenti.
Una terapia farmacologica non esiste. Non c'è alcun farmaco che possa far tornare la valvola ad aprirsi regolarmente. Esistono evidenze che le statine, cioè i farmaci per abbassare il colesterolo, possano contribuire a ridurre la progressione della malattia, ma nulla di più.
La terapia è pertanto chirurgica. Detto ciò, non necessariamente in tutti i casi si dovrà aprire il torace e sostituire chirurgicamente la valvola; esiste la possibilità (non tutti i centri hanno l'esperienza sufficiente) di una sostituzione della valvola per via percutanea, attraverso i vasi dell'inguine, senza necessità dell'intervento vero e proprio.
Particolarmente delicata è la questione del "timing", cioè quando avviare il paziente all'intervento. Se la scelta può sembrare facile in chi soffre e continua a soffrire di sintomi, molto meno facile può esserlo in caso di pazienti asintomatici, che stanno bene e non hanno intenzione di operarsi.
In tali casi è bene ricordare che, nei casi più gravi, la sopravvivenza media a 5 anni è ridotta, visto che complicanze maggiori sono sempre in agguato.
L'intervento chirurgico non è una passeggiata, ovviamente, nè sarà facile abituarsi al ticchettio della valvola metallica ad ogni battito, nè talvolta alla necessità di assumere farmaci anticoagulanti per tutta la vita. E' però l'unico modo per sopravvivere. Nei centri ad esperienza maggiore è possibile operare anche ottuagenari peraltro in buone condizioni, con buoni risultati post operatori.
Da non dimentacare la profilassi antibiotica

giovedì 29 gennaio 2009

Le Extrasistoli

"Dottore, mi han detto che ho le extrasistoli. Che sarà mai?"
Il riscontro di extrasistoli (o battiti extra rispetto a quelli soliti) è abbastanza frequente.
Come è facile intuire, senza corrente un muscolo è come fosse morto, non si contrae e non può lavorare. Il cuore, come forse non sapete, a differenza degli altri muscoli non ha bisogno della corrente che riceve dai nervi, ma possiede un impianto elettrico tutto suo, che lo rende autonomo e del tutto diverso. In pratica la corrente per contrarsi se la fabbrica da solo, facendola scaturire automaticamente e ritmicamente da un punto ben preciso, che si chiama "nodo seno atriale". Pertanto, quando il ritmo del cuore è normale, è proprio per tal motivo che prende il nome di "ritmo sinusale".
E' da quel punto che parte la corrente, la quale attiva, nel tempo di meno di mezzo secondo, tutto il cuore, secondo una ordinata sequenza (prima gli atri e quindi i ventricoli), in maniera simile a un'onda elettrica (infatti si chiama "fronte d'onda").
Un'extrasistole è un battito che origina in una zona del cuore differente da quella normale, potendo infatti nascere da un qualsiasi punto del muscolo cardiaco, e da lì diffondersi a tutto il cuore, causandone un battito (sistole) anomalo.
Poichè originato da un sito differente, è anche in controtempo rispetto al battito normale atteso, causando quindi la classica sensazione di palpitazione. Analizzando (sul tracciato elettrocardiografico) la morfologia dell'extrasistole, un cardiologo esperto potrà individuarne anche il punto di origine, con buona approssimazione.
Per tali motivi, all'elettrocardiogramma, un'extrasistole si nota immediatamente per le due tipiche caratteristiche:
  • forma diversa dai complessi normali (più slargata e più ampia)
  • in anticipo rispetto al battito atteso (basta contare i quadratini della carta millimetrata)
Esistono due grandi tipi di extrasistoli: ventricolari quando originate nei ventricoli; sopraventricolari quando invece nascono negli atri.
Comportano rischi?
Rispondere a questa domanda in senso assoluto, è impossibile. I rischi sono legati tanto a particolari caratteristiche delle extrasistoli, quanto soprattutto alla tipologia di paziente: una stessa extrasistole può avere un ben diverso significato, a seconda che il paziente sia giovane, con cuore sano, o anziano cardiopatico.
Pertanto, le caratteristiche di pericolosità variano notevolmente da paziente a paziente.
E' comunque possibile identificare alcune caratteristiche che le rendono quantomeno minacciose: la precocità (quanto più vicine cadono al battito precedente, peggio è), la morfologia (quanto più larghe sono sul tracciato ecg, tanto peggio), la frequenza (un conto è averne 100 nelle 24 ore, cosa diversa è averne 10000/24h).
Caratteristicamente, non vi è alcun legame tra la gravità delle extrasistoli e i sintomi. Questi possono essere vari e descritti in modo fantasioso, anche se più spesso ciò che si avverte è la palpitazione, il senso di cuore in gola o il senso di battito mancante.
Ovviamente possono decorrere senza alcun sintomo, venendo riscontrate del tutto casualmente, magari per elettrocardiogrammi eseguiti per altre cause.
Qualcuno potrebbe dire: "vabbè ma non mi è chiara una cosa, perchè si parla di rischi? Rischio di che? che mi venga un infarto?" Questa domanda l'ho sentita tante volte in ambulatorio, pertanto è bene chiarire: l'infarto non c'entra proprio nulla, è una cosa totalmente differente, regolata da meccanismi ben diversi e facilitata da fumo, familiarità e colesterolo alto. Qui il rischio è di tutt'altra natura: se l'extrasistole dovesse essere "di quelle pericolose", già descritte, potrebbe innescare la tachicardia ventricolare (prima descritta anche lei), con conseguente possibile perdita di coscienza e morte improvvisa.
Quali le cause?
Pur potendo esserci cause molto differenti, spesso non vengono trovate (specie in giovani dal cuore definito sano).
Le cause classiche sono disfunzioni della tiroide, alterazioni elettrolitiche, stress psicofisico, ischemia, effetto di alcuni farmaci.

Molta attenzione va prestata alla ripetitività di tali aritmie: quando sono in rapida sequenza si ha una tachicardia (ventricolare o sopraventricolare), tanto più pericolosa quanto più rapida sarà la frequenza della tachicardia stessa, fino a causare una sincope (svenimento e perdita di coscienza).
Essenziale è, come già detto, il contesto: quelle di un paziente post infartuato sono considerate le più minacciose, potendo innescare, in certi casi, tachicardie ventricolari rapidamente fatali.
E' molto importante escludere alcune cause rare, talora molto rare, ma decisamente pericolose: prima fra tutte la cosidetta "displasia aritmogena o cardiopatia aritmogena del ventricolo destro", che comporta un rischio di morte aritmica non trascurabile, contro il quale spesso l'unica scelta è l'impianto di un defibrillatore.
Esami diagnostici indicati

Per una completa valutazione fondamentale rimane la registrazione Holter di 24 ore, la quale ci dirà quante e di che tipo sono, autentico dato di partenza. A giudizio del proprio cardiologo, tale esame può essere completato da una prova da sforzo e da un ecocardiogramma color Doppler. Eventuali ulteriori esami, di seconda istanza, potrebbero essere consigliati solo dopo l'esecuzione di tali tre, non invasivi.
Trattamento
Esistono molteplici farmaci antiaritmici, i quali possono contribuire a ridurre l'entità del problema. In tale campo però, bisogna fare i conti con gli effetti indesiderati di tale classe farmacologica, con un'efficacia non eccelsa e con la considerazione che, nel caso in cui il cuore sia altresì sano, non è detto che sia necessario comunque ricorrere ad un trattamento farmacologico: quando sono numericamente poco rilevanti e non sono state giudicate pericolose, si può non trattarle. Pertanto ricordate che il vostro cardiologo potrebbe anche dirvi "per il momento non è indicato prendere un farmaco" cosa che, tradotta in termini più prosaici, vorrebbe dire "... in altre parole ce le ha e se le tenga perchè potrebbe avere più svantaggi dall'assunzione del farmaco che non dal fastidio della palpitazione".
Solo in determinate circostanze, e dopo attenta valutazione da parte dell'equipe cardiologica alla quale vi sarete rivolti, è possibile considerare l'ipotesi interventistica, cioè l'ablazione trans caterere, di cui si è già parlato a proposito di altre aritmie

domenica 18 gennaio 2009

Il Test da Sforzo

E' uno tra gli esami cardiologici di base, pertanto è molto comune ed eseguito in tutti gli ospedali. Consiste nell'interpretare le modifiche dell'elettrocardiogramma indotte dallo sforzo, per ricercare segni di sofferenza cardiaca non presenti a riposo ma che uno sforzo fisico, per l'appunto, può smascherare. Il tipo di sforzo è molto semplice, si tratta di una pedalata su una cyclette o di una corsetta su una pedana mobile (tapis roulant), con un carico di lavoro crescente (la pendenza della salita virtuale aumenta ogni 2 minuti).
E' un test sicuro in quanto le possibilità che qualcosa possa andare storto sono estremamente ridotte (se il cardiologo che lo esegue è esperto).
Ad eseguire un test da sforzo ci si arriva per dare una risposta ad un dolore al torace, che ovviamente potrebbe essere anche non cardiaco, ma bisogna sempre escludere che invece lo sia (la cosiddetta angina di petto o pectoris).
Il test infatti ci permette di risolvere (non sempre) il quesito: c'è ischemia del cuore o no? Infatti, attraverso particolari modifiche del tracciato elettrocardiografico, non presenti a riposo ma indotte dallo sforzo, si documenterà la presenza di ischemia e quindi di malattia delle coronarie, da trattare in vario modo: mediante angioplastica, mediante by pass aortocoronarico, solo con terapia farmacologica.
Nel corso dell'esame si possono valutare anche altre cose, come il comportamento della pressione arteriosa che deve aumentare (senza però incorrere nella risposta ipertensiva allo sforzo), così come l'eventuale insorgenza di aritmie di varia natura, spesso da non sottovalutare.
L'accuratezza del test è buona ma non è elevatissima, esiste la possibilità che il risultato (positivo o negativo) debba essere confermato da ulteriori indagini, di secondo livello (pertanto più costose e più invasive), ma questi sono argomenti che competono al vostro cardiologo.
In linea di massima, nel caso di dolore toracico, se il test è negativo per la ricerca di "ridotta riserva coronarica" (sinonimo di ischemia del cuore, o miocardica) si può stare tranquilli, o meglio, si deve ricercare altrove la causa del sintomo.
Per concludere, l'esame non è adatto a tutti: alcune malattie (tra cui alcune stenosi aortiche o la cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva) impongono cautela; di contro, chi non dovesse riuscire a svolgere un sufficiente livello di sforzo (o assumesse farmaci che frenano la frequenza cardiaca, quali i beta bloccanti) eseguirebbe un test sottomassimale, pertanto meno valido e meno interpretabile (fino ad essere totalmente inutile, in certi casi)