lunedì 19 dicembre 2011

Menopausa e Terapia Ormonale Danneggiano il Cuore?


La terapia ormonale sostitutiva è argomento di ampio interesse, in quanto assunta da un discreto numero di donne in post menopausa. Vede la sua indicazione principale nel controllo dei sintomi propri del climaterio, ma in passato si è ritenuto potesse agire favorevolmente su numerosi aspetti patologici propri della donna in quel periodo, con speranze in merito a riduzione dell’incidenza di tumori, riduzione dell’osteoporosi e prevenzione malattie cardiache. Cercheremo di fare il punto in merito a quest’ultimo aspetto, sempre preponderante in tema di salute femminile, ma andiamo con ordine.
Come sapete, finchè la donna è nel periodo fertile della sua vita ha una incidenza più ridotta, rispetto al maschio, di ammalarsi di cuore (inteso come cardiopatia ischemica, per la cui definizione e trattazione vi rimando al mio libro). Questa sorta di protezione naturale deriva dal diverso assetto ormonale nei due sessi: il maschio ha un solo ormone che lo caratterizza: il testosterone (ormone androgeno), che è sempre stabile e rimane per tutta la vita (ovviamente non è esattamente così, ma supponiamo che lo sia e prendiamolo per buono), mentre la femmina è molto più complessa. Per semplicità diciamo che gli ormoni tipici femminili sono due: gli estrogeni (responsabili dell’essere “femmina”) e i progestinici (che preparano e mantengono una gravidanza). Essi salgono e scendono con ciclicità mensile per tutta la vita fertile della donna, creando tantissimi effetti altrettanto ciclici, tra cui la protezione dalle malattie cardiovascolari. Con la menopausa tutto ciò si esaurisce, e il rischio di contrarre una malattia cardiaca ischemica si allinea a quello maschile.
Pertanto, con queste premesse, la ragione vorrebbe che somministrando ad una donna in menopausa gli ormoni che la Natura le ha tolto, essa possa stare meglio (non avere tutti i sintomi della menopausa), prolungare il suo periodo di normale benessere e non ammalarsi di determinate malattie. Peccato che la Natura non va come noi vorremmo che andasse, e che la menopausa non è una malattia! Detto ciò, analizziamo i dati scientifici e cerchiamo di trarne delle conclusioni.
Quando le conoscenze in merito agli effetti della terapia ormonale sostitutiva non erano complete (circa 15 anni addietro), dati preliminari avevano orientato i medici verso un chiaro effetto protettivo nei confronti della cardiopatia ischemica, addirittura alcuni studi parlavano di riduzione del rischio fino al 50%. Col progredire delle conoscenze, e soprattutto man mano che si completavano studi prospettici, emersero dati più accurati e ahimè, del tutto opposti. Il più importante è forse il WHI (Women’s Healt Initiative), studio di prevenzione primaria interamente dedicato alle pazienti femmine. In tale studio sono state arruolate circa 16000 pazienti di età media 63 anni, sostanzialmente sane (pochissime quelle con cardiopatia documentata), suddivise in due gruppi: ad uno il placebo, all’altro una associazione di estroprotestinico. I due gruppi sono stati seguiti per circa 5 anni, quando lo studio è stato interrotto precocemente in quanto si è visto che i rischi per la salute, nel gruppo trattato col farmaco, superavano i benefici. 
In particolare, analizzando i dati che man mano affluivano dai centri ai coordinatori dello studio, ci si è resi conto che il rischio di contrarre una malattia ischemica cardiaca era più alto del 24% nel gruppo trattato con l’estroprogestinico che nell’altro. In dettaglio, volendo vedere i numeri assoluti, i due gruppi erano di 8500 pazienti trattate contro 8100 pazienti col placebo: i casi assoluti di infarto miocardico non fatale sono stati 151 nel primo gruppo contro 114 nel secondo.
Questa e altre informazioni, scaturite dalle complesse analisi statistiche dello studio, hanno motivato la considerazione che la terapia ormonale sostitutiva (con estroprogestinici in associazione), in donne in post menopausa, non conferisce alcuna cardioprotezione; anzi, può leggermente incrementare il rischio di infarto miocardico non fatale. A ciò bisogna aggiungere l’aumentato rischio di tromboembolismo venoso, ictus e tumore della mammella, che comunque esula dallo scopo di questo scritto.
In conclusione l’impiego di tale terapia, la cui gestione è affidata in genere al ginecologo o all’internista, ha dei campi di applicazione limitati, di fatto solo per il trattamento a breve termine dei sintomi tipici del periodo post menopausa.

lunedì 12 dicembre 2011

Forame Ovale Pervio, che roba è ???


Quasi certamente deve essere stata questa la vostra esclamazione, dopo aver appreso i risultati dei primi accertamenti sul caso del calciatore Cassano. Ora che il problema è risolto direi che possiamo trattare l’argomento.
Il forame ovale pervio (che chiameremo PFO, la sigla inglese è “patent foramen ovale”, anche se in realtà la parola è di origine latina) è un buco nel cuore e, posta in questi termini, la cosa potrebbe sembrare alquanto preoccupante. In realtà è normale che tale “buco” ci sia, almeno fino ad un certo momento; dopo, se persiste, possono essere guai, vediamo come.
Come ormai saprete essendo lettori di queste pagine, il cuore di un adulto è fatto da due metà, non comunicanti tra loro. Il sangue refluo da tutto il corpo finisce in atrio destro, quindi in ventricolo destro che lo spinge nei polmoni. Dai polmoni ritorna al cuore prima in atrio sinistro e quindi in ventricolo sinistro, che lo spinge nuovamente in tutto il corpo attraverso l’aorta. Le due metà di cuore non comunicano tra loro, pena conseguenze gravi. Ma esiste un momento in cui invece devono comunicare, ed è quando i polmoni non sono ancora pronti. Infatti, prima di nascere non si respira, i polmoni sono inattivi in quanto l’ossigeno arriva dalla placenta, tramite la vena ombelicale. Questo buco, cioè questo setto che non è ancora completamente formato e che pertanto non sigilla i due atri, consente al sangue di “saltare” i polmoni, e rimane aperto anche perché la pressione maggiore è dalla parte dell’atrio destro, cioè da dove arriva il sangue. Alla nascita, con i primi respiri, i polmoni iniziano a funzionare e le pressioni all’interno del cuore cambiano (il discorso è u po’ lungo, nella metà sinistra aumentano), quindi questo buco (che in realtà è una fessura) si sigilla perché, dal versante sinistro, l’aumento di pressione forza i due lembi che lo formano ad appiattirsi, e il passaggio di sangue non avviene più.In alcuni adulti può succedere che tutto questo non avviene in maniera completa, pertanto rimane un certo passaggio di sangue: questo è il PFO, col quale si può convivere per decenni senza sintomi, fino a quando un qualcosa fa aumentare la pressione dall’altra parte, forzando nuovamente la fessura e consentendo il passaggio, oltre al sangue, anche di coaguli più o meno piccoli che possono essersi formati nelle vene periferiche da qualche parte. Cosa può essere questo “qualcosa” che forza il passaggio? Per esempio aumento della pressione intratoracica come tosse o starnuti violenti, o defecazione. Sta di fatto che se un coagulo (se ne possono formare di piccoli, ma di solito finiscono senza disturbi nei polmoni) passa a sinistra può causare guai grossi, bloccandosi in una qualsiasi arteria (ictus ischemico o embolie periferiche).
A tal proposito non bisogna pensare che una ischemia cerebrale (o ictus) si manifesti nel modo più grave e più noto, cioè con una paralisi o paresi che insorge improvvisamente. Esistono tanti altri sintomi apparentemente più subdoli, che possono condividere tale causa comune, come per esempio una improvvisa sordità o cecità, improvvisa difficoltà a deglutire o a parlare (disartria), nonché transitoria perdita di coscienza.
 Un PFO non solo può non dare sintomi, ma può anche non dare segni: non sempre c’è il soffio cardiaco, pertanto per scoprirlo bisogna sospettarlo e poi sottoporsi ad esami mirati, a cominciare dall’ecocardiogramma eventualmente anche transesofageo, nonché a risonanza magnetica.
Dopo accurata valutazione, da parte di cardiologi particolarmente esperti nel trattare tale aspetto del cuore, si può chiudere definitivamente tale anomalia applicando (senza intervento chirurgico, solo da una vena femorale) una specie di piccolo duplice “ombrellino” fatto di particolari leghe metalliche, che chiude la comunicazione anomala, con rischi di fallimento della procedura di applicazione (in mani esperte) ormai molto bassi.

domenica 13 novembre 2011

La Sincope e il Reveal


La sincope è, lo sanno tutti, una transitoria perdita di coscienza. Le conseguenze che può avere sono variabili, da poco importanti a drammatiche (per esempio durante guida di autoveicoli).
Benché le cause siano disparate (anche se in genere di tipo cardiaco o di tipo neurologico), in una buona percentuale di casi tali cause non si trovano, e la sincope può pertanto verificarsi nuovamente, con immaginabili conseguenze negative per il paziente. La sporadicità dell’evento (talora gli episodi possono verificarsi a distanza di mesi o anni tra loro) rende complessa la diagnosi, in quanto tutti gli accertamenti di primo livello che potrebbero essere fatti risultano non diagnostici.
Ad esempio, nel sospetto di una causa cardiaca (immaginiamo un blocco di conduzione o una eccessiva bradicardia o ancora tachicardie), il primo esame che si ritiene indicato è una registrazione dell’elettrocardiogramma di 24 ore (Holter) che però, avendo per l’appunto una durata limitata a 24 h (o al massimo 48 h), spesso non è in grado di identificare il problema.
Al fine di ovviare a tali limitazioni, per i casi di sincope di natura inspiegata è stato messo a punto (ormai da qualche decennio) un registratore, piccolo quanto un pacchetto di chewing-gum, che si impianta sotto la cute, nella parte anteriore del torace, con una piccola anestesia locale e con un taglio di circa 2-3 cm. Esso ha la funzione di registrare l’elettrocardiogramma sempre, per tutta la durata delle batterie (circa 2 anni e più). Tecnicamente si chiama “implantable loop recorder”; in origine prodotto da una sola Casa e battezzato Reveal, è oggi un dispositivo collaudato e rivelatosi di grande utilità, permettendo di identificare la causa cardiaca alla base di molte sincopi fino a allora considerate inspiegate.
Il dispositivo è utile tanto nei casi in cui la causa è chiaramente di origine cardiaca (se, ad esempio, viene confermato un blocco cardiaco si procede con l’impianto di un pacemaker) quanto in quelli non di natura cardiaca (in quanto si esclude il coinvolgimento del cuore e pertanto si approfondiranno accertamenti di altra natura, per esempio neurologici)
Esistono oggi sul mercato altri dispositivi, anche non impiantabili (cioè esterni), ma il loro uso è limitato e non ancora codificato, mentre l’impiego di un Reveal è codificato da diverse linee guida, tra cui quelle EHRA, le ultime del 2008, ove l’impianto di Reveal viene raccomandato in tutti i casi di sincope di natura indeterminata come approccio iniziale, prima ancora di sottoporsi ad accertamenti non invasivi che in molti casi potrebbero rappresentare una perdita di tempo e denaro.

domenica 9 ottobre 2011

Come e perché smettere di fumare


Prevenzione, prevenzione e ancora prevenzione. Oggi molti ne parlano, e chi non ne parla in genere ascolta e cerca di imparare. Nel corso degli ultimi 50 anni, in tema di prevenzione, sono state fatte molte importanti scoperte, ad opera di innumerevoli studi scientifici osservazionali, cioè volti ad osservare se esiste una associazione tra una certa malattia e un certo fattore, sia esso ambientale, alimentare o altro.
Tra i tanti fattori di rischio per malattie cardiovascolari, probabilmente il più colpevolizzato è il fumo, basta infatti guardare un qualsiasi film di qualche decennio addietro per notare protagonisti accendersi sigarette, o pubblicità occulte di sigarette in primo piano. Oggi, dopo tutte le campagne antifumo, una scena del genere sarebbe impensabile.
Il fumo fa male, malissimo, e basta frequentare qualsiasi ambulatorio medico per rendersene conto. Però, per coloro che fanno finta e alzano le spalle, salvo poi iniziare ad accusare guai più o meno riparabili, ecco un elenco di luoghi comuni da sfatare, ma che purtroppo sono duri a morire.
  1. Si dice fumo di tabacco in generale, in quanto si considerano anche sigari e pipa (benché i loro danni possano verificarsi in maniera differente)
  2. La probabilità di andare incontro a guai dipende dalle sigarette fumate, in quanto nei forti fumatori gli eventi fatali sono 5-6 volte maggiori rispetto ai non fumatori, con minime differenze tra maschi e femmine
  3. A proposito, per meritarsi l’appellativo di forte fumatore è sufficiente avvicinarsi al pacchetto quotidiano
  4. Smettere di fumare è fondamentale per una condotta di vita salutistica, però molto raramente i danni possono regredire, con particolare riferimento a placche carotidee o coronariche, argomento già trattato su queste pagine
  5. “si fumo, ma tanto non lo aspiro…”. Errore: il fumo passivo crea danni, c’è chi lo ha dimostrato, pertanto questa affermazione non regge
  6. Si va dal cardiologo e si pensa al cuore, dimenticando che esiste una precisa e dimostrata associazione tra fumo e
  7. Tumore della vescica
  8. Arteriopatia obliterante degli arti inferiori, conosciuta come Morbo di Burger
  9. Per non parlare del tumore al polmone, che resta il principale guaio, grosso come una montagna, che potrebbe capitarvi se fumate

Quanto fin qui detto risulta drammaticamente più pesante per chi un infarto lo ha già avuto e continua a fumare, così come chi è stato sottoposto a bypass aortocoronarico: è ben nota la minor durata dei bypass venosi rispetto a quelli arteriosi, durata ancora più accorciata dal fumo.
A questo punto, dopo la nostra chiacchierata, bisognerebbe chiedersi cosa si può fare per smettere; o meglio, quali sono gli aiuti farmacologici per chi è veramente motivato. Vediamoli insieme

Bupropione
È un farmaco che inibisce la ricaptazione neuronale delle catecolamine (noradrenalina e dopamina). Esiste sotto forma di gomme da masticare, compresse, cerotti transdermici e per inalazione (come fosse una sigaretta), ed il trattamento può prolungarsi fino a 3 mesi, in certi casi. È un farmaco che io conosco poco, comunque La tollerabilità non è delle migliori; spesso si può avere insonnia, tremori, agitazione, manifestazioni psichiatriche o  epilettiformi

Vareniclina (Champix)
Anche questo non si può dire che sia un farmaco frequentemente prescritto, tutt’altro; non ultimo perchè di un discreto costo. A livello cerebrale si comporta come la nicotina, saturando gli stessi recettori e pertanto togliendo lo stimolo del fumo. Anche in questo caso gli effetti indesiderati non sono pochi, per quanto comunque rari. Tra i più frequenti ricordiamo insonnia, cefalea, aumento della fame, nausea. Anni addietro vi sono state segnalazioni in letteratura di importanti alterazioni del comportamento, in tali casi fino al suicidio

a questo punto, dopo questa breve lettura sui danni del fumo e di quanto non completamente maneggevoli siano i farmaci indicati per la cessazione dell’abitudine tabagica, di certo avrete le idee più chiare; ma forse, più di tutto, a farvi smettere potrebbe bastare un semplice calcolo di quanti soldi si spendono in un anno per le sigarette, soldi letteralmente buttati in fumo....

lunedì 12 settembre 2011

quando il clopidogrel non ce la fa....

Chiunque sia stato sottoposto ad angioplastica coronarica, sia per curare un'angina che per un più complesso infarto miocardico, ha conosciuto di certo il clopidogrel, commercialmente noto come "Plavix".
Il pubblico si accorge anche di altre peculiari caratteristiche del farmaco: la seccatura del piano terapeutico (quel documento che consente di avere il farmaco gratis a chi ne ha diritto, visto l'alto costo) e la raccomandazione di assumerlo scrupolosamente (per un mese o per un anno almeno, a seconda del tipo di stent impiantato).
Da tempo ci si è però accorti che tale farmaco non produce lo stesso effetto su tutti i pazienti: in alcuni potrebbe essere come acqua fresca, esponendoli al rischio di complicanze in sede di impianto di stent. Questo aspetto era in parte già noto durante gli studi preliminari, in quanto il clopidogrel si sa essere ampiamente captato dal fegato e ivi metabolizzato, cioè ridotto a metaboliti (una specie di derivati), in misura piu o meno variabile a seconda di come la genetica ha conformato quel fegato piuttosto che quell'altro.
Questa caratteristica, un tempo poco nota, è stata via via chiarita (in buona parte), al punto da sintetizzare un nuovo farmaco, una sorta di evoluzione, appartenente alla stessa famiglia e chiamato prasugrel, già approvato negli Stati Uniti già dal 2009.
Si preannuncia un impiego su più vasta scala anche in Italia, come emerso dai lavori del 45° Congresso di Cardiologia dell'Ospedale Niguarda, attualmente in corso a Milano, che vede chi vi scrive tra gli iscritti.
Sarà però indispensabile analizzare le linee guida in merito (tornerò sull'argomento se qualcuno di voi lettori ne farà richiesta) e prescrivere il prasugrel quando effettivamente indicato, poichè è già nota (dagli studi preliminari) la maggiore tendenza al sanguinamento del prasugrel rispetto al clopidogrel

giovedì 2 giugno 2011

Il Defibrillatore Impiantabile

Il defibrillatore impiantabile, conosciuto con l'acronimo ICD (Implantable Cardioverter Defibrillator) è un vero e proprio dispositivo salvavita, ideato ormai decenni addietro, da un team di scienziati tra cui M. Mirowski, autentico pioniere della cardiologia interventistica, dalla storia personale avventurosa e travagliata, sfuggito alle persecuzioni naziste e rifugiatosi negli Stati Uniti.
L'idea in sé è semplice: inventare un dispositivo che riesca a fare, all'interno del corpo, ciò che il defibrillatore esterno (quello che tutti abbiamo visto nei film, quando un operatore applica le due piastre sul torace del paziente, dà la scossa elettrica, il paziente sobbalza e in un attimo torna a vivere) fa per l'appunto dall'esterno.
Detta così è semplice, la realtà è ben diversa.
In sintesi: un ICD è un dispositivo del tutto simile ad un pacemaker. Come il pacemaker sente  istante per istante se il cuore si contrae spontaneamente (cioè se c'è attività elettrica o meno), ed emette un impulso elettrico che fa contrarre il cuore solo quando si accorge che attività cardiaca spontanea non ce n'è.
Rispetto al pacemaker c'è però una differenza fondamentale: il dispositivo è in grado non solo di sentire se c'è una normale attività elettrica cardiaca, ma anche di capire se questa attività elettrica è fonte di guai, cioè se si sta verificando una aritmia potenzialmente minacciosa per la vita.
Chi ha letto il mio libro sa che l'attività elettrica del cuore non sempre va come deve andare. Un cuore malato può manifestare alterazioni del ritmo che fanno contrarre il cuore in maniera inefficace a spingere il sangue in circolo, causando la morte in pochi secondi. Tra queste aritmie, le due più temibili sono:
  • tachicardia ventricolare
  • fibrillazione ventricolare

Se si innesca una fibrillazione ventricolare l'attività elettrica cardiaca si disorganizza totalmente, il ventricolo sinistro non si contrae più in maniera ordinata, il sangue non circola più e la morte cerebrale sopraggiunge in qualche minuto.
Naturalmente in un cuore normale non si innesca una tale aritmia; invece, tanto più sfasciato è un cuore tanto più facilmente può innescarsi un qualcosa del genere, pertanto sarebbe estremamente utile avere un defibrillatore esterno (e un angelo custode che sappia usarlo e soccorrerci) ovunque: per strada, al lavoro, allo stadio, nelle piazze, negli autogrill, nelle spiagge ed in generale ovunque ci sia tanta gente. Questo è proprio ciò che si vorrebbe realizzare con i programmi di defibrillazione precoce sul territorio.
Però, quando un cuore è già malato, proprio perchè sarebbe impossibile avere un defibrillatore esterno ovunque (e poi ci vorrebbe qualcuno che un minimo lo sapesse usare) allora il defibrillatore va impiantato all'interno del corpo.
Visivamente è un po' più grosso di un pacemaker e si impianta esattamente come un pacemaker, pertanto vi rimando al mio libro o all'articolo su questo blog.
Le differenze stanno, come dicevo, nella capacità (una volta identificata, supponiamo, una fibrillazione ventricolare) di interrompere tale aritmia erogando uno shock elettrico.
Per fare ciò l'apparecchio ha al proprio interno dei condensatori. Identificata l'aritmia questi vengono caricati in qualche secondo, e un istante dopo parte la scarica elettrica. E qui sta la seconda grossa differenza col pacemaker: l'elettrocatetere, che volgarmente qualcuno chiama "cavetto".
Altro che cavetto. E' un sofisticatissimo filo elettrico avvolto da guaine biocompatibili, che a differenza di quello di un pacemaker possidede due grossi avvolgimenti metallici detti "coil di defibrillazione", uno distale (che deve essere tutto all'interno del ventricolo destro, all'atto dell'impianto) e uno prossimale che può essere posizionato in vena cava superiore. La corrente elettrica può attraversare il cuore e interrompere l'aritmia per l'appunto con un flusso che va da un coil all'altro, o in alternativa da un coil alla cassa del ICD, secondo sofisticati parametri programmabili.
I coil di defibrillazione sono immediatamente visibili ad una radiografia del torace, distinguendo immediatamente un pacemaker da un defibrillatore.
Un ICD è ovviamente un miracolo di ingegneria e di tecnologia, al punto che i cardiologi devono sempre avere il supporto di un team di ingegneri dedicati, con cui confrontarsi per ogni potenziale dubbio o malfunzionamento o ottimizzazione degli innumerevoli parametri programmabili.
E il paziente? Quando tutto fila liscio e non vi sono complicanze, il paziente ha una enorme sicurezza in più: quella di tornare ad una qualità di vita accettabile sapendo che l'apparecchio vigila incessantemente, intervenendo quando è il caso.
Nella realtà, si sa, talvolta le cose si complicano. La percezione del dolore è molto soggettiva, c'è chi percepisce la scossa elettrica e la descrive come un incubo, c'è chi invece ne parla come di un semplice fastidio. Di sicuro, se l'ntervento è stato appropriato, senza ICD quel cuore con quella aritmia si sarebbe fermato in pochi istanti, causando la morte del paziente.
Di rovesci della medaglia comunque ce ne sono diversi, non ultimo una certa sensibilità e delicatezza degli apparecchi a qualsiasi potenziale fonte esterna di disturbo, dai sistemi antitaccheggio dei negozi a taluni telefoni cellulari, saldatrici ad arco..... etc
Esistono inoltre delicate questioni di economia sanitaria, è innegabile che tali apparecchi abbiano un costo notevole, ovviamente in Italia a carico della collettività.
Resta il fatto che, dati scientifici alla mano, un ICD è in ambito cardiologico l'unico dispositivo realmente in grado di ridurre la mortalità in determinate classi di pazienti (in particolare coloro con la frazione di eiezione particolarmente ridotta, e pertanto ad alto rischio di eventi aritmici potenzialmente fatali).

domenica 10 aprile 2011

Sintomi e Donne

In tema di differenze uomo-donna, il campo cardiologico può riservare delle sorprese. Che il cuore femminile fosse, per alcuni versi, differente da quello maschile, era cosa nota e se ne è parlato anche su queste pagine (per chi mi segue), per esempio nell’articolo dedicato alla sindrome TakoTsubo.
Le differenze, in realtà, non sono solo peculiari di tali sindromi rare, bensì talvolta marcate e riscontrabili molto frequentemente, per esempio a proposito di cardiopatia ischemica. La maggior parte dei medici sa (perché cosi è scritto sui testi) che quando si parla di cardiopatia ischemica (quindi dall’angina all’infarto miocardico) il sintomo principale è il dolore toracico dalle caratteristiche tipiche, oppressione al petto, irradiato al braccio sn, e cosi via.
Queste modalità di presentazione, però, spesso non valgono per le donne, le quali avvertono il dolore da cardiopatia ischemica differentemente. Diversi studi hanno affrontato l’argomento, già ben noto ai cardiologi, grazie ai quali è stato documentato che quasi la metà delle donne che ha avuto un infarto non ha accusato alcun sintomo toracico. Erano invece molto frequenti modalità di presentazione cosiddette atipiche, per esempio fiato corto, stato d’ansia, dolori localizzati solo al dorso o solo alle spalle, etc.
Inoltre, a differenza degli uomini, è descritto che le donne accusino anche sintomi premonitori ben prima del verificarsi dell’infarto, in certi casi anche malesseri un mese prima, dato che per quanto ne sappia non è per nulla frequente nei maschi.
Questi aspetti, associati al diverso comportamento che le alterazioni elettrocardiografiche possono avere nei soggetti di sesso femminile (vedi ridotta sensibilità del test da sforzo, utile per la diagnosi), rendono ragione del maggior numero di mancate diagnosi in pronto soccorso (che riguardano per l’appunto donne) nonché della mortalità per cardiopatia ischemica che, nelle donne, rimane sempre al primo posto, ben più elevata dei tumori di cui tanto si parla.
Che fare? Prendere coscienza di tali aspetti, anzitutto, e nel caso ci si dovesse sentir male, sempre meglio completare la valutazione dal medico di fiducia con un elettrocardiogramma durante la crisi (per esempio in pronto soccorso)

martedì 15 febbraio 2011

il Bypass Aortocoronarico

Anzitutto la definizione: by-pass vuol dire passare oltre, e in genere, per oltrepassare qualcosa, bisogna gettare un ponte.
E' ciò che ci si chiese tanti anni addietro quando, osservando vasi arteriosi diffusamente malati, si concepì la possibilità di oltrepassare il punto del massimo restringimento con un pezzo di un altro vaso, attaccato a monte e a valle della stenosi (cioè del restringimento).
La malattia aterosclerotica colpisce molti distretti, si sa, con le coronarie in primo piano. Genetica, fumo, diabete e colesterolo alterano profondamente la struttura di una coronaria, talvolta in maniera diffusa a tutto il vaso; talatra, e sono i casi più fortunati, solo in certi punti, restringendone il lume in maniera significativa.
In questi casi si ha l'angina pectoris nei casi più lievi, fino all'infarto miocardico o la morte improvvisa in quelli più gravi.
Nei casi più semplici, per riportare il lume coronarico al diametro iniziale è possibile dilatare la coronaria stessa con una procedura chiamata "angioplastica", che qui non tratteremo.
Nei casi più complessi invece, le lesioni sono tali da non poter essere dilatate con l'angioplastica. 
Pertanto, dopo consulto cardiologico, sarà il vostro cardiologo di fiducia a proporvi all'equipe cardiochirurgica per l'intervento di bypass aortocoronarico, cosa non certo semplice o alla portata di qualsiasi chirurgo.
Un cardiochirurgo, operando sul cuore, sa che deve essere estremamente accurato (lavora su vasi del diametro di pochi millimetri) e anche molto rapido (dopo il clampaggio aortico e l'inizio della circolazione extracorporea, viene fermato il cuore con la soluzione cardioplegica, e meno tempo si impiega a lavorare sul cuore fermo, meglio è). A questo punto si crea un vero e proprio ponte che oltrepassi la stenosi coronarica; a dire il vero un bypass, cioè il  ponte, può essere confezionato dal chirurgo in vari distretti, tanto coronarici quanto periferici (cioè circolazione degli arti inferiori), però qui tratteremo solo quelli aorto coronarici, cioè quelli che interessano le coronarie.
Come bypass è possibile impiegare tanto altre arterie (che la natura aveva destinato per altri scopi), come per esempio l'arteria toracica o mammaria (sono sinonimi, in inglese si abbrevia in LIMA o RIMA, a seconda se si tratti della mammaria sinistra o destra), oppure tratti di vena safena che vengono isolati dalle gambe, e quindi reimpiantati in direzione contraria sulle coronarie a valle, e direttamente abboccati alla parete aortica a monte.
Ciò premesso, è evidente che le coronarie native devono mantenere un minimo di integrità per far si che un cardiochirurgo possa metterci le mani, in quanto i miracoli non li fa nessuno; per esempio, è evidente che se le coronarie native sono molto piccole di natura (come spesso si vede nei diabetici), sarà estremamente difficile per un cardiochirurgo poter confezionare i bypass (diciamo che il diametro minimo si aggira almeno a 1.2 mm di diametro, e con tali vasi un chirurgo dovrà sudare parecchio...)
Un bypass non è eterno. L'errore che i pazienti commettono spesso è: "mi hanno rimesso il cuore a nuovo, pertanto posso tornare a fare quello che facevo prima, cioè fumare e mangiare quanto e come mi pare...."
I ponti arteriosi durano di più, talora anche decine di anni, come nel caso della mammaria in situ, cioè lasciata al suo posto naturale e collegata solo distalmente alla coronaria (che in genere è sempre l'IVA, cioè la discendente anteriore - vedi il mio libro per la spiegazione anatomica); meno felice è la durata della stessa mammaria quando usata come free graft, cioè staccata prossimalmente e distalmente e attaccata all'aorta da una parte e alla coronaria dall'altra.
La vena grande safena dal canto suo, impiegata ormai da decenni, presenta una buona resistenza alla lunga, per quanto la durata di un bypass venoso sia sempre meno lunga rispetto a uno arterioso; tra l'altro è importante isolare la safena al meglio, evitando traumatismi del vaso stesso che potrebbero compromettere la durata nel tempo del bypass.
In passato sono state impiegate anche altre tipologie di arterie, dalla radiale alla gastroepiploica, passando per arterie eterologhe, cioè di altre specie diverse dall'uomo (bovini), con risultati inferiori in termini di durata nel tempo.
Una volta conclusa la convalescenza, salvo complicazioni di competenza strettamente chirurgica, verrete riaffidati alle cure del vostro cardiologo, che imposterà la terapia e vi seguirà negli anni a venire, decidendo volta per volta quali esami consigliarvi per il controllo periodico della pervietà dei bypass stessi, dal più semplice (test da sforzo) a esami più accurati e sofisticati quali la cardioTAC coronarica, di cui abbiamo già parlato.

sabato 22 gennaio 2011

La Pericardite

E' l'infiammazione del pericardio, cioè di quella membrana che ricopre il cuore.
Il dolore è tipico: toracico anteriore, spesso irradiato alle spalle, modificato dalla posizione, dal respiro, dalla tosse.
Vi sono alterazioni elettrocardiografiche abbastanza tipiche, bne note ai cardiologi, nonchè la presenza di versamento pericardico (cioè liquido infiammatorio che si accumula tra il pericardio e il cuore)
Vi è aumento della VES e della Proteina C Reattiva (PCR), spesso con febbre) e leucocitosi neutrofila, cioè aumento dei globuli bianchi chiamati granulociti neutrofili.
Tale definizione non riguarda il riscontro occasionale (all'ecocardiogramma) di versamenti pericardici più o meno asintomatici.

PERICARDITE ACUTA: QUADRO CLINICO
Esordisce generalmente con febbre, malessere generale e dolore toracico spesso irradiato alle spalle, modificato da posizione e respiro. Il dolore toracico può simulare quello dell’infarto miocardico acuto, oppure quello di una pleurite.
Altri sintomi sono la tosse secca e la difficoltà respiratoria causata dal dolore.
La radiografia del torace non è fondamentale per la diagnosi, molto più importante è l'ecocardiogramma, che permette una corretta valutazione dell’ispessimento dei foglietti pericardici, associato o meno a versamento pericardico

CAUSE
Il 5% è causata dalla tubercolosi, circa il 5% da tumori, circa il 5% da malattie autoimmuni, e circa l’80-85% resta “idiopatica”, vale a dire non si riesce ad individuare una causa.
Alla base di molti di questi casi “idiopatici” vi possono essere virus anche banali e molto diffusi nell’ambiente (es. Adenovirus, Coxsackie virus, virus parainfluenzali, Parvovirus B17, etc.), che in soggetti geneticamente predisposti oltre a  dare le consuete infezioni virali, es. respiratorie (tosse, raffreddore, etc) o gastrointestinali (febbre, diarrea, vomito, etc.) potrebbero provocare anche una infiammazione del pericardio.

Non affronteremo il trattamento in questa sede, meglio affidarsi ai vostri cardiologi per le terapie che riterranno più opportune.
La pericardite è una patologia che decorre in genere senza lasciare tracce, ad eccezione delle pericarditi recidivanti (comunque rare). In alcuni casi, per fortuna rari, l'accumulo del versamento è così veloce da causare "tamponamento cardiaco", una condizione estremamente grave, sempre mortale se non si interviene rapidamente: si tratta dell'incapacità del cuore di dilatarsi a sufficienza per poter accogliere il sangue durante la diastole (cioè la fase di distensione del cuore) a causa del liquido che lo comprime. L'unica cosa da fare, una volta fatta la diagnosi, è la pericardiocentesi, cioè l'aspirazione di tale liquido mediante puntura.