domenica 28 ottobre 2012

Ancora in tema di fibrillazione atriale e ablazione

L’argomento fibrillazione atriale è già stato trattato più volte su questo blog, ma vorrei tornare ad aggiornarvi , vista la recentissima pubblicazione di un articolo (N Engl J Med 2012; 367:1587-1595) in quella che viene considerata la più prestigiosa rivista scientifica medica, il New England Journal of Medicine, fondata due secoli fa.
Per chi non lo sapesse, la fibrillazione atriale è una perdita del normale ritmo regolare del cuore, sostituito da un’attività degli atri totalmente disorganizzata, tale pertanto da far battere l’intero cuore in maniera irregolare. Comporta essenzialmente due cose: anzitutto il rischio di embolie periferiche o ictus embolici cerebrali, nonché sintomi più o meno fastidiosi, come cardiopalmo e/o ridotta tolleranza allo sforzo (a proposito, i giornalisti scrivono sempre “cardiopalma”, qualsiasi medico dice invece “cardiopalmo”).
Il trattamento è sempre consistito in una terapia anticoagulante, al fine appunto di ridurre il rischio tromboembolico (e in tema vi sono diverse novità, ne abbiamo accennato ma tornerò a ragguagliarvi), nonché in una terapia antiaritmica, cioè farmaci in grado di ridurre le recidive di fibrillazione atriale una volta riportato il ritmo alla norma (mediante cardioversione elettrica, per esempio).
Il problema è che l’efficacia della terapia antiaritmica non è eccelsa, in quanto le recidive aritmiche possono sempre verificarsi (e talora sono molto frequenti, tali da ridurre la qualità di vita) pertanto si è sviluppato negli ultimi 15-20 anni un approccio interventistico, volto ad eliminare la causa della fibrillazione atriale, cioè colpire il punto di innesco dell’aritmia. Questo punto (semplifichiamo così) è situato in una zona del cuore molto difficile e delicata, l’interno delle vene polmonari, cioè quelle quattro vene che riportano in atrio sinistro tutto il sangue già ossigenatosi nei polmoni.
A partire da tale intuizione, i principali elettrofisiologi del mondo si sono sfidati a colpi di elettrocatetere, per mettere a punto procedure di ablazione trans catetere che riesca a raggiungere le vene polmonari e creare una microscopica bruciatura proprio nella zona ove parte l’aritmia.  È stata una vera e propria corsa ai risultati, per poter affermare la propria tecnica come quella efficace, e pertanto poter pubblicare i risultati agli occhi del mondo. Tale procedura di ablazione della fibrillazione atriale è molto più complessa della media delle altre procedure ablative, in quanto bisogna anzitutto raggiungere l’atrio sinistro facendo una puntura all’interno del cuore (puntura transettale), e quindi muoversi all’interno del cuore con l’ausilio di sofisticatissimi sistemi di mappaggio (analoghi al GPS) che guidano l’operatore millimetricamente, facendogli vedere ove è situata la punta del catetere ablatore. Inoltre, qualsiasi procedura nelle sezioni sinistre del cuore (e quindi nel circuito arterioso) è estremamente più delicata di una nelle sezioni destre, in quanto anche la minima bollicina d’aria dentro i circuiti di infusione o il più piccolo coagulino potrebbero scatenare un ictus o una embolia periferica.
Dicevamo, gli elettrofisiologi di tutto il mondo si sono pertanto gettati a capofitto in questa procedura, ottenendo risultati all’inizio scarsi, progressivamente più soddisfacenti, come è nella naturale evoluzione delle cose, al punto che l’ablazione è stata proposta sempre più precocemente (una volta si diceva: proviamo i farmaci, se non funzionano vedremo di sottoporla ad ablazione), fino all’articolo sopra citato, che ha analizzato i risultati di un approccio interventistico versus farmacologico in pz con fibrillazione atriale parossistica mai trattata in precedenza.
I risultati non sembrano incoraggianti: se parliamo di trattamento ablativo come primo approccio ad una fibrillazione atriale parossistica mai trattata prima, l’efficacia di esso equivale quella farmacologica (e quindi abbastanza scarsa) nell’arco dei due anni successivi, a fronte però di una percentuale di complicanze maggiori in chi era stato ablato rispetto ai trattati farmacologicamente.
Ciò premesso, chi soffre di tale aritmia farà bene a rivolgersi al proprio cardiologo, col quale verrà decisa la strategia terapeutica più appropriata